sabato 21 maggio 2011

Storie avventurose di libri necessari

Le cose sono cambiate, l’estate è arrivata e con essa il rito del mare che ai bambini piccoli fa tanto bene.  Da oggi in poi, si legge di notte e si posta all’alba. Questo mi rende ancora più impietosa verso i libri troppo voluminosi, quelli che contraddicono le regole del club del Shandy per intenderci. Decisamente voluminoso è questo Storie avventurose di libri necessari di Domenico Scarpa, che mantiene la promessa di avventurosità del titolo, dove le avventure sono principalmente le avventure editoriali ma non è certo questo il maggior pregio del libro. La vera rivelazione sta nell’aver mantenuto la promessa dell’incipit “ “Fin dall’infanzia, Robert Louis Stevenson è stato per me una delle forme della felicità”. Questa frase di Borges è il filo che attraversa le pagine che state per leggere…”
La promessa è mantenuta: si passa da un libro all’altro, per osmosi, per l’invisibile contagio che solo i libri possono. Borges adora Stevenson, Sciascia è ossessionato da Stendhal, Fruttero e Lucentini sono beckettiani persino nella vita (elogio funebre che l’uno pronuncia per l’altro compreso), Vittorini si fa affascinare dall’incontro con  Marguerite Duras (come non invidiarlo?). Quasi nessuno degli scrittori adoranti ha raggiunto la levità dello scrittore adorato.
 In certi libri, Sciascia ha cercato di imitare il suo idolo in modo così maldestro, e inutilmente  Calvino lo provocava, invitandolo  a far venire fuori il suo demone, a far sentire la sua voce vera. Dice Domenico Scarpa che “Innamorarsi di Stendhal ha significato per Sciascia innamorarsi dei propri limiti, dare forma chiara e distinta alle proprie paure[…] l’adorare chi è tanto dissimile da noi ci conferma in ciò che fatalmente siamo”.
Non solo, allora, la lettura in generale ci porta alla realizzazione della nostra vocazione umana come peraltro già sospettavo, ma certe letture in particolare. E quelle che ci scegliamo come le nostre preferite, le scegliamo proprio perché  hanno in sé qualcosa della virtù che ci manca.  Non è che il meccanismo dell’amore per il bene spiegato da Platone: si vede da qualche parte qualcosa della virtù che vorremmo avere.
Ma non facciamo tutto da soli, nella nostra solipsistica mente , nella nostra solipsistica casa tanto più solipsistica  perché in queste prime luci del giorno non arrivano capricci, mugugni, lamentele che  riposano ancora per qualche ora, c’entrano anche i tempi in cui viviamo.
Mi ha colpito leggere dei carteggi  sulla pubblicazione dei libri Se questo è un uomo di Primo Levi e La specie umana di Robert Antelme (chi non ha pianto alla lettura del libro che ha raccontato il suo ritorno dai campi di concentramento: Il dolore di Marguerite Duras?).  Semplicemente, valentissimo collaboratori dell’Einaudi, percepiscono ciò che è chiaro a tutti: la gente era stanca dei libri sui campi di concentramento. Nessuno dei due manoscritti fu il benvenuto, la loro pubblicazione fu temporeggiata per quasi dieci anni, in attesa che si potesse di nuovo digerire una certa dose di narrazione di realtà. Ecco che un certo livello di narrazione zero non tutti i tempi possono permettersela. I nostri si, forse.

domenica 15 maggio 2011

Fenomenologia dell'invidia e cioccolato fondente al 70%

Come prolungare ad oltranza i sonnellini pomeridiani della domenica di figlio e marito? Sto perfezionando tecniche che sfiorano la tortura psicologica: per il piccolo basta svegliarlo alle 6 come gli altri giorni della settimana  quando lo porto al nido, ma dopo averlo fatto correre all’aperto  per ore  il sabato pomeriggio i risultati sono sorprendenti: quasi 5 ore di silenzio prolungato. Per il marito è più semplice, il trucco sta nel tirare molto l’aglio prima di cuocervi il coniglio ripieno con le patate.
Tutto premeditato, niente è affidato al caso, in attesa di poter finalmente rileggere I libri che non ho scritto di George Steiner. Che fosse un libro da leggere piano lo sapevo già, c’è il rischio di restarci secchi. La causa? Il peso specifico  del  sentimento più potente dell’uomo: il rimpianto per le occasioni mancate.
Di tutti i libri di cui Steiner aveva progettato di scrivere, quello che più mi ha  costretto a fermarmi è stato quello sull’invidia. Quando dico che un libro mi costringe  a fermarmi vuol dire che sento una sensazione tumultuosa che si irradia direttamente dal mio intestino pigro e dunque sono costretta ad andare in cucina  in cerca di cioccolata nera fondente con minimo 70% di cacao. È l’unica cosa che mi calma. Devo confessare che ho trovato solo i resti di un uovo di cioccolato del piccolo che stranamente adora il cioccolato nero fondente. Ma per fortuna lui fa parte di quella generazione che è costretta all’alimentazione biologica ed equilibrata di zuccheri e grassi sin dal nido. Tra parentesi, mi chiedo come abbiamo fatto noi a venir su senza il biologico. È per questo che siamo così sottosopra?
Io non so come Steiner avrebbe chiamato il suo libro, mi piace immaginare un titolo roboante come “Fenomenologia dell’invidia”, anche se per lui è semplicemente il libro su Cecco d’Ascoli, un contemporaneo di Dante Alighieri, dilaniato dall’invidia per il successo delle opere del suo rivale. L’invidia serpeggiava in ogni sua opera, in particolare nell’Acerba, la sua opera principale, definita  “un’imitazione frustrata della Divina Commedia” e  che è stata bruciata con lui sul  rogo. Ma non si limitava ad un’invidia scritta, nei fatti e nelle azioni non faceva che denigrare le opere dell’altro.
Steiner confessa che non ha scritto il saggio su Cecco e sulla  sua invidia perché il tema lo “toccava troppo nel profondo”. Credo che in qualche modo centrino con questa affermazione le  telefonate in arrivo da Stoccolma per l’assegnazione del Nobel agli abitanti di  stanze inutilmente vicina alla sua.
Ma il momento in cui ho dovuto fermare sul nascere il manifestarsi di una nera disperazione galoppante con i residui di nerissima cioccolata è stato quando ho letto la seguente frase: “una modalità più sottile  e più dolorosa dell’invidia difensiva è una calibrata mortificazione di sé”. Come dire, nemmeno i più umili e i più mansueti sono al sicuro da questo sentimento di invidia strisciante.
Quando la cioccolata ha fatto il suo corso dal palato  a tutto il sistema nervoso, ho capito che cosa mi aveva tanto turbato: forse chi legge libri sui libri è in qualche modo affetto da una forma di invidia difensiva? Leggere di libri è forse  un modo per ammansire le belve della creazione che digiunano dentro di me? Sarà vero che ammiriamo e veneriamo l’oggetto della nostra invidiosa frustrazione?
Io non ho mai sentito squillare telefoni benevoli nemmeno in stanze attigue alle mie, se squillavano ,erano talmente lontano dalla mia casa tranquilla (solo alla domenica nel primo pomeriggio) da concludere così che l’invidia ha bisogno di contiguità, di vicinanza, dell’essere stato ad un pelo da che il telefono squilli proprio in casa tua.
Chi può provare invidia sono solo i “non piazzati” come li chiamerebbe Steiner, quelli che hanno partecipato alla gara e/o hanno visto da vicino, troppo da vicino il genio altrui.
Ma anche tra i non piazzati si dovrebbe provare  distinguere: ci sono  i non piazzati come Max Brod che alla fine in qualche modo cooperano affinchè il genio trionfi e i non piazzati come Cecco d’Ascoli, il cui turpiloquio invidioso lo ha condotto dritto al rogo e prima ancora all’autodistruzione.
Steiner dice che la fonte dell’invidia potrebbe essere la percezione di un’ingiustizia. È ingiusto che un uomo sia baciato dal genio e un altro no,che uno possa essere un Apollo Carismatico ed un altro un gobbo Tersite.
Ma io dico –grazie alla serena accondiscendenza che mi viene dalla quantità di cacao nel sangue - a cos’altro servono i  libri e la lettura, se non ad essere più flessibili, ad accettare meglio e più a fondo la nostra vocazione umana?
I rimpianti per  le azioni non agite possono essere distruttive ma il rimpianto per i libri non scritti è un esercizio di  incredibile generosità perché regala idee, passa il testimone, senza mortificarsi, dicendo semplicemente: io sono arrivato  fino qua, tu se puoi, vai oltre.
Quanti ne conoscete di intellettuali, politici e dirigenti così? Che ad un certo punto vi svelano il loro percorso e si mettono da parte, vi fanno spazio? La chiamano gerontocrazia, ma è qualcosa in più, è più simile a quello che ha scritto il duca di Rochefoucauld, un altro che ha avuto il buon gusto di ritirarsi per tempo:”l’amore per se stessi quando supera il limite diventa una perversa passione sia per  chi ne è invaso, sia soprattutto per gli altri  che egli vuole rendere suoi soggetti distruggendone l’indipendenza e trasformandola in amore verso di lui”.

domenica 8 maggio 2011

Sulla fame di realtà dei lettori e sulla sazietà degli scrittori

E se i libri sui libri avessero un più alto livello di realtà? Cioè fossero più adatti  ad incarnare una letteratura basata sul bisogno di  contemplazione e di rivelazione del lettore? Questo mi chiedevo dopo un cosciotto di agnello con le patate che ho cucinato e che è stato mangiato anche  dal piccolo avvolgendolo così in un sonnellino pomeridiano durato dalle 2 alle 6 che mi ha permesso di riflettere a fondo sulla faccenda.
Sono state ore propizie, in me la fase digestiva del cosciotto di agnello ha favorito una  certa inclinazione al liric essay e ho quindi deciso iniziare questa rassegna di libri sui libri con il saggio Fame di realtà di David Shields. Se non fossi una lettrice della domenica pomeriggio e un’umile impiegata per il resto della settimana potrei dirvi che questo libro mi ha fatto pensare a Derrida e al decostruttivismo dei segni ma purtroppo non mi è consentito andare oltre:  alla fine non ho studiato filosofia  come avrei voluto ma una facoltà che mi permette di lavorare e  di sfamarmi ma non di leggere.
Questo libro introduce un nuovo genere: il collage letterario che l’autore intende come l’unica forma possibile di evoluzione della letteratura: nel collage la scrittura diviene quasi una pratica di lettura.
Ricostruire la paternità di ognuno dei frammenti di cui è composto il libro, distinguere le parti scritte da David Shields o quelle di altri invece  rimescolate da David Shields è impossibile  a chi legge ma forse anche a chi scrive, a giudicare dalla vaghezza delle  fonti  a fine libro; fonti alla cui sommaria identificazione è stato costretto dai legali della casa editrice.  È a dire il vero se non frega niente a lui del diritto d’autore, non  frega niente nemmeno a noi.  A leggerlo ho provato un rimescolamento allo stomaco. Come il “rimescolamento” dei proci quando vedevano Penelope. È esattamente quello che si deve provare quando ci si accorge che si sta per ottenere quello che si è tanto cercato
In questo smantellamento della trama “quello che rimane in piedi è la cosa in sé”, tanto per citare il frammento 140. Qui dentro c’è materiale autentico che con un giro di frullatore diventa invenzione letteraria.  E pazienza se è un frullato di libri altrui. Che cos’è in fondo l’appropriazione nell’arte? Ce lo dice lo stesso Shields nel frammento 271: “è come quando rubi ma lo fai per principio perché in un altro contesto il significato cambia”.
Il ragazzo Shields  dopo tre romanzi di fiction (ai tempi in cui ignorava di essere un autore di fiction) ha confessato di aver sempre avuto un debole per le citazioni. È come non perdonarlo, se come dice lui, Il futuro è nelle citazioni, (una volta era nella plastica!).  È lui è il primo ad aver portato l’arte della citazione senza virgolette a livelli inimmaginabili. È l’arte del montaggio applicato alla letteratura.
D’altronde, se è vero che “Il romanzo è morto e l’antiromanzo si nutre di scarti”, questi almeno sono scarti di prima scelta, raccolti per anni con pazienza nel suo quaderno azzurro. E pare di vederlo questo simpatico ragazzone calvo, girare per l’Università di Washington a insegnare letteratura creativa mentre sotto il braccio nel suo fascicolo azzurro raccoglie tutte le ultime frasi del romanzo morente.
La morte del  romanzo  merita un’autopsia, la troviamo nel frammento 347. La causa del decesso sarebbe, per dirla in breve, un eccesso di prevedibilità. La realtà così variegata o così naturalmente finta forse  umilia il talento.
Autentico godimento è il capitoletto su “l’elogio della sintesi”.  Questo libro per la sua originalità merita davvero di essere il primo nella mia personale mappa dei libri sui libri. E leggendolo non ho per niente avvertito la maledizione che – secondo Shields- incomberebbe sul lettore di non-fiction, e che lui chiama “l’insicurezza epistemologica” , il non sapere quanto c’è di vero in questo frullato di libri altrui. E chi se ne frega!  È un nuovo genere o qualcosa di simile.  E come tale è benvenuto.
Anche in Italia abbiamo da tempo alcuni messia del nuovo genere letterario avvenire. Cito Wu Ming e la loro New Italian Epic in cui viene avvistata “una dimensione perturbante degli oggetti narrativi non identificati”; tale definizione viene data per provvisoria, utile a definire “narrazioni che non sono più romanzi ma non sono ancora compiutamente altro”, con l’avvertimento che forse compiutamente altro non diverranno mai.  Di certo tra i tratti principali di questa New Italian Epic il collettivo di scrittori annovera una nuova sintesi tra fiction e non-fiction,  espressa in forme diverse da quelle cui siamo abituati a pensare.
L’effetto  soporifero  dell’agnello con patate è finito e con esso il tempo concesso alla lettura della domenica. So che non dovrei incedere tanto nel parlare di cibo, almeno per una solidarietà verso le scarse possibilità di sfamarsi di alcuni scrittori. Su questo triste tema mi soni intrattenuta nel post del 1° maggio ma vorrei aggiungere che forse tale incapacità di sfamarsi è dovuta  appunto al loro rapporto di sazietà verso il romanzo tradizionale,  di cui forse non sentono  l’odore di putrefazione. È anche a loro che consiglio di leggere David Shields adesso che anche lui è pienamente consapevole di essere uno scrittore di non-fiction.

domenica 1 maggio 2011

il lettore improduttivo

Iniziare un blog il 1° maggio vuol dire parlare di lavoro anche se in questo blog si parla di libri; non di tutti i libri ma solo di libri che trattano di libri.  Verranno citati e commentati solo libri sui libri.

Non si sbaglia chi pronostica che il genere principe della modernità sarà il romanzo-saggio, ormai l'ultimo paladino della leggerezza in senso calviniano. Il romanzo-saggio è la vera cifra del  post-romanzo in un mondo letterario post-narrativo.
L'antesignano del romanzo saggio è "Tristram Shandy" di Sterne. Non può essere un caso che proprio il geniale Enrique Vila-Matas abbia proposto nella sua divertentissima "Storia abbreviata della letteratura portatile" che perchè gli autori facciano parte dell'esclusiva societa segreta "Shandy" è raccomandabile che coltivino l'arte dell'insolenza, un certo spirito innovatore ma, soprattutto,l 'intera loro opera deve agevolmente entrare in una piccola valigetta e- non di meno- essi  devono restare imperturbabilmente celibi.

Lo dico il più chiaramente possibile: questo blog si ispira all'opera di Enrique Vila-Matas. E' solo grazie a lui se sono riuscita a conoscere l'esatto nome della malattia di cui da decenni soffro: il Mal di Montano. Come lui, non faccio che vedere continui riferimenti letterari nella vita reale. Non potendo combattere da sola questa sovraesposizione della vita alla letteratura, ho assunto la irreversibile decisione di condividere con voi  questo male. Lo farò parlando di tutti coloro che oltre ad essere portatori del male (ad oggi considerato inguaribile) hanno anche l'aggravante di essere scrittori, e perciò hanno tratto la propria ispirazione letteraria  dai libri altrui. E se pure fosse solo "vampirismo letterario" come lo definisce Vila-Matas , che importa? ...la guarigione non ha prezzo.

Eccoci giunti al rapporto tra i libri e il lavoro. Come noto, è richiesto ad ogni lavoratore di mantenere costante una certa euforia che sia funzionale a incomprimibili livelli di produttività. E se qualcuno avesse preso sul serio questo monito e si prodigasse per preservare e selezionare i libri in base al livello di euforia garantita ai lettori?  Non vogliamo nemmeno pensarci a che razza di libri rudimentali, scoppiettanti di passioni e collere artefatte si salverebbero...decisamente meglio un lettore improduttivo.

E sempre a proposito di lavoro e libri, l'occasione è troppo ghiotta per non approfittarne. Repubblica di ieri, 30 aprile 2011, pubblica il manifesto degli scrittori TQ (sta per trentenni quarantenni): "Prendiamoci il potere". Questi scrittori, ebbene, chiedono soldi non solo letteratura. sono tutti d'accordo nel ritenere giusto lo stpendio  per gli intellettuali. e dire che uno di loro ha scritto anche un libro dal titolo "Tre mosse per sbarazzarsi di Tolstoj" (certo, dovendo scegliere, meglio salvare Stalin e i gran commis del pensiero unico). Pochissimi, nessuno riesce a vivere di sola scrittura, scrive pietoso  l'articolista, Dario Pappalardo. Come dire, l'improduttività è un lusso del solo lettore.