Ancora sui libri necessari. Avventurosi? Non saprei. Cos’è che fa la distinzione tra un o scrittore ed uno che pur volendolo non lo diventerà mai? La risposta potrebbe essere in una citazione di Corrado Alvaro riportata in questo immenso volume : “c’è la preoccupazione di non essere all’altezza dei propri disegni letterari”. Dunque immaginatevelo questo scrittore non ancora scrittore ma che lo diventerà dopo un certo allenamento alla sconfitta, come vince la preoccupazione di non essere all’altezza dei propri disegni letterari? Copiando! So cosa state pensando che ormai è tempo di stroncare le velleità di critica letteraria dell’ultima impiegata a tempo pieno e casalinga nel week-end ! E invece vi dico di no, è proprio così: copiare per uno scrittore che sia in cerca della sua propria vocazione e del suo proprio unico stile è normale. Solo pochi sono disposti ad ammetterlo. Tra questi, il più onesto è Vila Matas che ha ammesso di aver capito di essere diventato scrittore quando le parti copiate si andavano man mano riducendo a vantaggio di quelle di propria mano. Lui copiava gli scrittori che ammirava, come tutti. Come ad esempio Sciascia che adorava Stendhal al punto da operare sulla sua opera una “cleptomania di secondo grado”. Le virgolette indicano che lo dice questo libro dalla mole implacabile che mostra totale irriverenza verso coloro che hanno a disposizione solo la domenica pomeriggio per la lettura.
L’ossessione in amore come in letteratura può portare alla denigrazione di se stessi. Calvino aveva un bell’arrabbiarsi con Sciascia affinché lasciasse perdere quelle sue brutte imitazioni di Stendhal piuttosto si impegnasse a “far uscire il suo demone”. A mio avviso, questo demone non esce finchè lo scrittore morto va di notte a spaventare lo scrittore vivente che continua a copiargli lo stile e non si decide ad assumerne uno proprio.
Un altro che candidamente confessa le sue frustrazioni durante la carriera che lo ha portato da essere un semplice copista, nella fattispecie traduttore, a scrittore di suo, è Carlo Fruttero.
Lui era lì -inviato per il suo buon inglese scoprirà un po’ mortificato in seguito- quando nel 1961 a Formentor, isola di Maiorca, vincono a pari merito il Prix International des èditeurs Samuel Beckett e Jorge Louis Borges, quel premio diventato famoso per la fulminante battuta di Borges prontamente riportata dal suo amico Rodolfo Wilcock: “uno dei due è stato aggiunto al premio per far capire all’altro che si trattava soltanto di uno scherzo”.
Dopo la proclamazione dei due vincitori ex-equo, viene offerto un banchetto sontuoso cui partecipò–dice Fruttero- la crema intellettuale d’Occidente che proprio davanti al miglior cibo e alla migliore compagnia letteraria del mondo che la vocazione letteraria si para inesorabilmente davanti agli occhi del buon Carlo Fruttero: “pensai che anch’io sarei diventato col tempo uno di loro, un rispettato, un distinguished, punto di riferimento culturale, premiato e agghindato da agghiaccianti onorificenze, invitato a tenere seminari in prestigiose università, collaboratore di importanti quotidiani, giurato dei massimi premi, spinto infine all’acquisto di un autorevole doppiopetto. Una bella carriera, sulla quale mi sporsi come su un tragico abisso". E' curioso come l'ambizione letteraria possa svelarsi allo scrittore dall'amore per il buon cibo. Virginia Woolf era una delle poche ad esserne pienamente consapevole.